L’ormone della crescita bovino (BGH, bovine growth hormone) è simile per molti aspetti a quello umano, ma induce un effetto col laterale prezioso dal punto di vista zootecnico, giacché aumenta la produzione di latte nelle vacche. La Monsanto clonò il gene codificante il BGH e produsse un ormone ricombinante. Sebbene le vacche sintetizzino normalmente l’ormone, con le iniezioni del BGH della Monsanto aumentarono la produzione di latte di circa il 10 per cento. Alla fine del 1993 la FDA approvò l’uso del BGH e nel 1997 circa il 20 per cento dei dieci milioni di vacche da latte americane riceveva ormai i supplementi di ormone. Il latte così prodotto è indistinguibile da quello prodotto da bovine non trattate con integratori: entrambi i latti contengono infatti le stesse piccole quantità di BGH. Una fondamentale argomentazione contro l’etichettatura del latte con diciture come « ottenuto senza supplementi di BGH », così da contraddistinguerlo da quello «ottenuto con supplementi di BGH» consiste proprio nell’impossibilità di distinguere il latte proveniente da vacche trattate e non trattate: non c’è modo, pertanto, di stabilire se tali etichette siano o meno veritiere. Poiché l’uso del BGH consente agli allevatori di raggiungere i propri obiettivi di produzione di latte con un numero di capi di bestiame inferiore, in linea di principio si tratta di un’innovazione benefica per l’ambiente, giacché potrebbe dar luogo a una riduzione delle mandrie al pascolo. Inoltre, poiché il gas metano prodotto dai bovini contribuisce significativamente all’effetto serra, la riduzione delle mandrie potrebbe davvero avere un effetto a lungo termine sul riscaldamento globale. Il metano è venticinque volte più efficace dell’anidride carbonica nel trattenere il calore, e in media una vacca al pascolo ne produce seicento litri al giorno — abbastanza per gonfiare quaranta palloncini.
All’epoca rimasi sorpreso del fatto che l’uso del BGH provocasse una tale esplosione di proteste da parte della lobby anti-DNA. Oggi, mentre assistiamo al trascinarsi della controversia sui cibi geneticamente modificati, ho imparato che la gente poIemica può fare un problema di qualsiasi cosa, per partito preso. Jeremy Rifkin, il più ossessivo nemico delle biotecnologie, inaugurò la propria carriera di Bastian Contrario in occasione del bicentenario dell’indipendenza americana, nel 1976: ci trovò da obiettare. Poi passò a obiettare sul DNA. A metà degli anni Ottanta, la sua reazione a chi osservò che probabilmente la questione del BGH non avrebbe infiammato l’opinione pubblica fu: « Io ne farò un problema! Troverò qualcosa! E il primo prodotto della biotecnologia e io lo combatterò». E lo combatté. «E innaturale» (ma è indistinguibile dal latte «naturale»). «Contiene proteine che causano il cancro» (non è vero, e in ogni caso le proteine sono degradate nel corso della digestione) « Costringerà i piccoli allevatori a chiudere » (invece, a differenza di molte nuove tecnologie, in questo caso non esistono costi anticipati, e quindi i piccoli allevatori non vengono discriminati). « Farà male alle vacche» (quasi nove anni di esperienza commerciale su milioni di capi di bestiame hanno dimostrato che non è così). Alla fine, quando divenne chiaro che nessuno degli scenari apocalittici previsti da Rifkin era realistico, il chiasso andò smorzandosi, proprio come era accaduto nel caso delle obiezioni contro il DNA ricombinante, ai tempi di Asilomar.
Il battibecco sul BGH fu un assaggio di ciò che ci aspettava. Per Rifkin e la gente che la pensava come lui, animata da un’autentica fobia nei confronti del DNA, il BGH non fu che un antipasto: a fare da portata principale erano in arrivo gli alimenti geneticamente modificati.
(J.D. Watson – DNA)