C’era una radio italiana a Brooklyn, l’ascoltavo sempre quand’ero ragazzo. Mi piaceva da matti quella erre arrotolata, mi sembrava che mi avvolgesse come un’onda dell’oceano. Rimanevo in ascolto mentre quella lingua bellissima mi lambiva. Nei programmi italiani c’era sempre una scenata in famiglia, con liti e discussioni tra padre e madre:
Voce acuta: «Eiiio tidiico chiooo capito tuutto...».
Voce bassa: «Tu nonciiai... tuuutto!» (sonoro rumore di schiaffi).
Straordinario! Ho imparato così a esprimere quelle emozioni: a piangere e a ridere in italiano, una lingua davvero deliziosa.
Nel nostro quartiere a New York c’erano parecchi italiani. Una volta ero in giro in bicicletta e un italiano alla guida di un camion se la prese con me: si mise a gridare con grandi gesti una frase tipo «Miai rruuccià lampis tatten tattè!».
Sprofondai. Chissà cosa mi aveva detto. E cosa avrei dovuto ribattere?
Mi consigliai con un compagno di scuola italiano: «Tu rispondi soltanto “A te! A te!”, che te la cavi sempre». Difatti andava benone, con i gesti adeguati. Mi sentii più sicuro di me e cominciai a migliorare. Andavo in bicicletta, qualche signora in automobile mi tagliava la strada: «Puzzìa la malocce!», urlavo io pressappoco, e lei sussultava, convinta che un monellaccio italiano le avesse mandato un terribile accidente. Non era facile capire che il mio italiano era inventato.
Un giorno a Princeton, mentre entravo, sempre in bicicletta, nel parcheggio del Palmer Laboratory, qualcuno mi tagliò la strada. Avevo conservato le vecchie abitudini, e gridai verso la macchina: «Grezze carbonca mice! »
Dall’altra parte del prato che fiancheggiava il parcheggio, c’era un giardiniere italiano al lavoro. Si fermò, salutò con la mano, e mi gridò felice: «Rezza malìa», o qualcosa che ci assomigliava molto. «Rontè balta», gli urlai di rimando. Lui non sapeva che io non sapevo, io non avevo capito quello che aveva detto, ma era tutto a posto. Funziona lo stesso: appena la gente sente l’intonazione, riconosce subito l’italiano, magari prende una parola per un’altra, ma, che importa? Sempre italiano è. Basta esser sicuri di sé, tirare avanti dritto. Non succederà niente.
Un giorno tornai a casa dall’università per le vacanze e trovai mia sorella in lacrime: le sue amiche scout avevano organizzato una cena per i padri e le figlie, ma nostro padre era in giro per il Paese a vendere uniformi. Le dissi di non preoccuparsi, che l’avrei sicuramente accompagnata io (ho nove anni più di lei, potevamo farcela). Arrivati sul posto rimasi per un po’ in mezzo ai padri, ma mi stancai presto. Tutti quei papà accompagnavano le figlie alla festa ma poi rimanevano a chiacchierare del listino di borsa - gli adulti non sanno parlar con i figli, e meno che mai con gli amici dei figli.
Durante la cena le ragazze presentarono un piccolo spettacolo, balli, poesie, e così via. Poi portarono uno strano indumento, sembrava un grembiulone con un buco per infilarci la testa, e annunciarono che a quel punto toccava ai papà dare spettacolo. Ogni padre doveva alzarsi, passare la testa nel grembiulone e dire qualche cosa, una poesia per bambini o roba del genere. Erano tutti impacciati. Anch’io, a dire il vero. Ma quando venne il mio turno annunciai che avrei recitato una poesiola che sicuramente sarebbe stata gradita, anche se, purtroppo, non era in inglese:
A TUZZO LANTO
Poici di Pare
Tanto saca tulna ti, na puttas tucci putti tilà,
runto cata cianto cianta manto cila tidà.
lalta cara sulda mi lacciata piccia pino tito bralda
pe te cina nana ciunda lala cinda lala ciunda!
Ronto piti cale, a tanto cinto quinta lalda
o la tinta dalla lalta, ienta puccia lalla talta!
Recitai un po’ di strofe di questo tipo, con l’enfasi e l’emotività che avevo imparato dalla radio italiana. Le ragazzine si rotolavano per terra dalle risate. Dopo cena, il capo scout e un’insegnante mi dissero che si erano trovati a discutere della poesia. Uno dei due sosteneva che fosse latino, l’altra riteneva fosse italiano. «Chi ha ragione?», mi domandarono. «Dovete chiederlo alle ragazzine», risposi. «Loro l’hanno capito subito.»
(Sta scherzando Mr. Feynman! Vita e avventure di uno scienziato curioso - R. Feynman)