Vita e Destino – V Grossman
Il ‘900 è stato un secolo terribile. Iniziato e finito a Sarajevo, in mezzo c’è stata la II guerra mondiale, lager, gulag e siamo stati fin troppo vicini alla guerra nucleare. Eppure il secolo sembrava promettere ben altro, ai primi del ‘900 erano in molti ad essere sinceramente convinti che il peggio fosse alle spalle, e che il progresso avrebbe migliorato, irreversibilmente, il mondo (cfr. A. Finkielkraut – Noi, i moderni, pp163-172).
Cos’è andato storto, allora? Com’è che la promessa di un futuro migliore è stata così clamorosamente tradita? Quella di Grossman è una testimonianza diretta, figlia della lotta contro i nazisti prima, e contro il regime comunista sovietico poi. I personaggi di “Vita e Destino”, veramente il Guerra e Pace dei giorni nostri, vivono sulla propria pelle la tragedia del ‘900. Le vite dei protagonisti, che ruotano intorno alla battaglia di Stalingrado, si scontrano ripetutamente con la crudeltà degli apparati statali, nazista e sovietico, e con la loro profonda disumanità.
“Quando un uomo muore le stelle nel cielo notturno si sono smorzate, la Via Lattea è scomparsa, s’è spento il sole, si sono spente milioni di foglie, anche il vento è cessato, i fiori hanno perso colori e profumo, è sparito il pane, l’acqua, il freddo e il caldo dell’aria. L’universo che esisteva nell’uomo ha cessato di esistere. Questo universo assomigliava straordinariamente all’altro, l’unico, che esiste al di fuori degli uomini. Questo universo assomigliava straordinariamente a quello che continua a riflettersi in milioni di teste vive.
Ma questo universo era particolare per il fatto che in esso c’era qualcosa che distingueva il rumore del suo oceano, il profumo dei suoi fiori, lo stormire delle sue foglie, le sfumature dei suoi graniti, le tristezze dei suoi campi d’autunno, da ciascuno di quelli che sono esistiti ed esistono in ogni individuo. La libertà consiste nell’irripetibilità, nella unicità dell’anima di ogni singola vita. “
I totalitarismi, figli del progetto di migliorare il mondo, hanno dimenticato l’uomo, stritolandolo nei loro meccanismi:
Dalla nebbia emerse il recinto del lager, le file di reticolati tesi tra i pilastri di cemento armato. Le baracche allineate formavano strade larghe, rettilinee. La loro uniformità rivelava la disumanità dell’enorme luogo di detenzione. […]Fra milioni di isbe russe, non ce ne sono né ce ne saranno mai due perfettamente identiche. Tutto ciò che vive è irripetibile. È impensabile che due uomini, due cespugli di rose selvatiche siano identici... La vita si spegne là dove la costrizione si sforza di annullare ogni peculiarità dei singoli.”
Eppure niente riesce a fermare l’anelito di libertà dell’uomo, che ha la meglio anche sui soldati nazisti, trasformatisi da assedianti in assediati:
“Gli ufficiali del quartier generale tedesco erano cambiati anche interiormente; i boriosi e gli arroganti si erano calmati; gli spacconi avevano smesso di vantarsi, gli ottimisti avevano iniziato a rimproverare lo stesso Fuhrer e a dubitare della giustezza della sua politica.[…]
Nei tormenti della fame, nelle paure notturne, nell’impressione della sventura incombente, lenta e graduale iniziò negli uomini a liberarsi la libertà; si umanizzavano, in essi a poco a poco si affermava la vittoria della vita sulla non- vita.”
Grossman è morto negli anni ‘60, perseguitato dal KGB e senza vedere il suo manoscritto pubblicato, né l’URSS crollare. Eppure mi piace pensare che non abbia mai perso la speranza, come la chiusura del libro suggerisce:
[…]in quella penombra fresca, sotto la neve, riposava la vita passata: la gioia d’un appuntamento d’amore, il timido chiacchiericcio d’aprile degli uccelli, i primi incontri con quegli strani vicini che sarebbero diventati familiari,. Dormivano i forti e dormivano i deboli, dormivano gli intrepidi e i pavidi, i felici e gli infelici. Quella casa abbandonata e vuota dava l’ultimo saluto ai suoi morti, a chi l’aveva lasciata per sempre. Eppure nel freddo del bosco la primavera si percepiva meglio che sulla radura illuminata dal sole. Il silenzio del bosco era più triste del silenzio d’autunno. In quell’assenza di suoni si udivano le lacrime versate sui caduti e la gioia furiosa della vita…Era ancora buio, faceva freddo, ma fra pochissimo porte e finestre si sarebbero spalancate e quella casa avrebbe ripreso vita, riempiendosi di risa e pianti di bambini, dei passi frettolosi di una donna e di quelli decisi del padrone di casa.
note:
1. recensioni sul libro: questa su wuz.it, quest’altra su nonsoliproust,
2. il sito del centro studi vita e destino, da dove ho preso alcuni estratti
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