La tensione tra Cartesio e Cervantes

domenica 16 gennaio 2011 Posted by tfrab 0 comments

[...]se Cartesio pone l'uomo nel mondo come soggetto sovrano, Cervantes da parte sua lo detronizza in modo discreto:

«Mentre Dio stava lasciando piano piano il suo posto dal quale aveva diretto l'universo e il suo ordine di valori, separato il Bene e il Male e dato un senso a ogni cosa, Don Chisciotte uscì di casa e non fu più capace di riconoscere il mondo, che, in assenza del giudice supremo, gli apparve all'improvviso di una spaventosa ambiguità; l'unica Verità divina si scompose in centinaia di verità relative che gli uomini si divisero tra loro. Nacque così il mondo dei tempi moderni, e il romanzo, sua immagine e modello, nacque insieme ad esso.»

picasso-pablo-don-quichotteCi voleva del coraggio e persino dell'eroismo per concepire l'ego pensante come il fondamento di tutto; ma era necessaria altrettanta forza per «concepire il mondo come ambiguità» e per «possedere come unica certezza la saggezza dell'incertezza». Non è solo lo spirito cartesiano ad aver dato la sua impronta ai tempi moderni, facendo la loro specificità, ma anche la tensione tra Cartesio e Cervantes. Nel momento in cui gli esecutori del metodo, con la testa piena di linee, numeri e segni algebrici, «forzano il passaggio attraverso le tortuosità della vita», lo spirito del romanzo elimina gli ostacoli frapposti alla comprensione dei paradossi e dei grovigli dell'esistenza dalle vecchie antinomie metafisiche dell'alto e del basso, della tragedia e della commedia, dello stile sublime e della prosa quotidiana. Mentre la scienza «si accanisce a prendere in esame il perché di tutte le cose in modo che ciò che appare sia spiegabile, dunque calcolabile», lo spirito del romanzo s'ingegna a far rincretinire il principio di ragione. Il suo, infatti, è il campo dell'imponderabile, della sfumatura, della parte di verità che finisce per schiacciare ogni certezza trionfante. All'equiparazione dei problemi dell'umanità lo spirito del romanzo risponde con la continua esplorazione del fenomeno umano. Alle idee chiare e distinte continua ad opporre il contrappeso dello scrupolo. «Proprio come Penelope – scrive magnificamente Kundera – lo spirito del romanzo scuce la trama ordita la sera prima da teologi, filosofi e dotti».

((A. Finkielkraut - Noi, i moderni)

Labels: , ,

Il grande Milo Temesvar

giovedì 30 dicembre 2010 Posted by tfrab 0 comments
“Alla fiera del libro di Francoforte alcune personalità del mondo dell’editoria si ritrovano un giorno a pranzo. C’erano Gaston Gallimard, Paul Flamand, Ledig-Rowohlt e Valentino Bompiani. Vale a dire lo stato maggiore dell’editoria europea. Commentano questa nuova follia che si è impossessata dell’editoria, che consiste nel dare anticipi sempre più alti ad autori giovani che non hanno ancora dato prova di sé. A uno di loro viene in mente di inventare un autore. Il suo nome sarà Milo Temesvar, autore del già noto Let Me Say Now, per cui l’American Library ha già offerto quella mattina cinquantamila dollari. Decidono quindi di far circolare questa voce e di stare a vedere cosa sarebbe successo.
Bompiani torna al suo stand e racconta la storia a me e a un mio collega (all’epoca, lavoravamo per lui). L’idea ci seduce e iniziamo a passeggiare per gli stand della fiera parlando qua e là con fare misterioso di questo Temesvar che presto sarebbe diventato famoso. La sera, durante una cena, Giangiacomo Feltrinelli viene verso di noi, tutto eccitato e ci dice: “Non state a perder tempo. Ho già comprato io i diritti mondiali di Let Me Say Now!” Da allora, Milo Temesvar è diventato per me molto importante. In seguito ho scritto una recensione a un libro di Temesvar, The Patmos Sellers, che appariva come una parodia di tutti i venditori di apocalissi. Presentavo Milo Temesvar come un albanese che era stato cacciato dal suo paese per deviazionismo di sinistra! Aveva scritto un libro ispirato a Borges sull’uso degli specchi nel gioco degli scacchi. Per la sua opera sulle apocalissi, avevo anche proposto il nome di un editore che era molto chiaramente inventato. Ho saputo che Arnoldo Mondadori, all’epoca il più grande editore italiano, aveva fatto ritagliare il mio articolo su cui aveva appuntato in rosso: “Comprare a qualsiasi prezzo”.
Ma Milo Temesvar non si è limitato a questo. Se leggete l’introduzione al Nome della rosa, vi è citato un testo di Temesvar. Ho quindi ritrovato il nome di Temesvar in alcune bibliografie. Di recente, per fare una parodia del Codice Da Vinci, ho citato alcune delle sue opere in georgiano e in russo, provando così che ha dedicato all’opera di Dan Brown degli studi molto acuti. Insomma, ho vissuto tutta la vita con Milo Temesvar.”
Labels:

Il museo dell’innocenza– O Pamuk

domenica 26 dicembre 2010 Posted by tfrab 0 comments

pamuk-museoL’ultimo romanzo di Orhan Pamuk parla di una storia d’amore bellissima e tragica, che nasce nella Istanbul degli anni ’70. L’inizio del libro è giocato sul contrasto tra l’ambiente di estrazione del protagonista del libro, Kemal, e della sua promessa sposa, Sibel, rispetto alla Istanbul popolare, incarnata dalla bella Füsun. La vita porterà Kemal a dover fare un scelta difficile, che passerà necessariamente attraverso il sacrificio: come avverte uno dei personaggi minori del romanzo, Çetin, richiamando la storia di Abramo durante la īd al-aḍḥā:

“[…]Se doniamo ciò che più di prezioso abbiamo a qualcuno che amiamo profondamente, senza aspettarci nulla in cambio, solo allora il mondo diventa un posto meraviglioso”

agli occhi del lettore l’epilogo degli eventi potrebbe apparire quanto mai triste, eppure Kemal, il protagonista del libro, chiede esplicitamente che il libro si chiuda con la frase:

“Tutti devono saperlo: ho avuto una vita felice”

La contraddizione è solo apparente, e risulta chiara quando si vada a considerare il tema più importante del romanzo: il Tempo. Infatti:

“[…]ricordare il tempo è fonte di dolore per la maggior parte delle persone. Sforzarsi di immaginare la linea che unisce i singoli istanti […] ci rattrista sia perché avvertiamo la sua inesorabile fine, cioè la morte, sia perché invecchiando, comprendiamo dolorosamente che la linea in se è priva di senso. I singoli istanti, invece, possono regalarci una felicità che non si esaurisce per per centinaia di anni[…]”

Insomma, la ricerca del tempo perduto è una necessità ineluttabile, di fronte alle pene d’amore, ai lutti della vita e ai cambiamenti feroci che attraversano Istanbul, che sembra perdere un po’ della sua anima con la modernizzazione, forzata dall’ingenua illusione di farsi facilmente “europei” a dispetto delle proprie radici.

Il fantasma di Proust, e della sua Recherche, aleggia per tutto il libro, e si fa più forte verso la fine, quando viene esplicitamente citato più volte. Se nella Recherche è l’opera d’arte a dare senso alla Vita, e a permettere di ritrovare il tempo perduto, qui è la consapevolezza dell’importanza dei singoli istanti, dell’unicità del nostro vissuto e delle nostre esperienze personali ad essere messa in risalto, al punto che in un museo (*) trovano un posto importante oggetti apparentemente banali, come saliere, mozziconi di sigaretta o soprammobili da quattro soldi.

La riflessione di Pamuk, insomma, va al di là della storia d’amore, pur incantevole e struggente, che racconta. Ci parla di noi stessi e della nostra vita (ancora Proust diceva che ogni lettore in un romanzo legge se stesso), del passaggio storico che stiamo vivendo in questi anni, in Turchia più marcato che altrove, della difficoltà e del fascino di “essere un ponte tra due rive”.

 

(*)il museo di cui parla il libro esiste davvero, ed è stato fondato da Pamuk da Istanbul

Labels:

I detective selvaggi–R Bolaño

domenica 5 dicembre 2010 Posted by tfrab 0 comments

“I detective selvaggi” racconta la storia di due personaggi, Ulises Lima e Arturo Belano, attraverso venti anni di peregrinazioni tra America, Europa ed Africa.

La storia è narrata in maniera originale: non vediamo mai i due protagonisti in primo piano, piuttosto attraversano le storia degli altri, in modo che nei ricordi di uno studente di Tel Aviv, di un'infermiera di Barcellona o di un reporter in Angola, seguiamo le loro avventure.

Ne deriva una narrazione straordinariamente ricca, faticosa forse da seguire, almeno all'inizio, e che conferma in pieno il talento fuori dal comune di questo scrittore, morto troppo presto.

Il lettore attento troverà diversi accenni a 2666: un romanzo scritto da Arcimboldi, il mezcal "Los Suicidas", un personaggio che parla del "mondo dopo il 2600" e la parte finale ambientata nel Sonora.

Un libro che, più che ammirazione, desta rimpianto per quello che poteva essere 2666 e che invece rimarrà incompiuto.

Labels:

La morte di Mario Monicelli

martedì 30 novembre 2010 Posted by tfrab 2 comments

Io a Monicelli gli ho voluto bene, davvero. Non poteva essere altrimenti, sono malato di "Amici miei" da tempo. Mia moglie all'inizio rimaneva sconcertata dal mio prenotare al ristorante a nome Mascetti (spesso con supercazzola inclusa) e non si spiegava l'ilarità di vedere un vicino di casa, medico, che si chiamava Sassaroli.
Però tanto sono rimasto colpito dal gesto estremo, quanto trovo ancora più incomprensibili le interpretazioni del suicidio di Mario che vengono proposte con una certa sicurezza su molti blog, e anche da parecchi miei contatti su FriendFeed. Togliersi la vita vuol dire riaffermare il diritto a disporne liberamente, in barba ai tanti baciapile che popolano l’Italia? Può essere, però non mi sembra di aver trovato da nessuna parte prova di questa interpretazione. Non mi sentirei di giudicare così a cuor leggero. Non dico mica che Monicelli non sapesse quello faceva, dico che difficilmente possiamo saperlo noi.
Pensare che il suo togliersi la vita abbia rappresentato un riaffermarne la piena disponibilità è, forse, plausibile, magari anche poetico a modo suo, ma dimostrato proprio no.
Se posso spingermi un po' più in là, considerando che molti sostenitori di questa tesi sono, ognuno a modo suo, laici, mi sembra di cogliere un paradosso. Il credente è dubbioso di fronte alla vita e al suo mistero: nonostante sia un uomo di fede non mi pare abbia tutte le certezze che comunemente gli vengono attribuite. Più semplicemente riconosce i suoi limiti e si affida ad altre "categorie" per provare a vivere la vita pienamente. Al contrario mi pare che la posizione laica, negando questo stesso mistero, o comunque provando a risolverlo con la finitezza umana, rimanga disarmata in situazioni così estreme, peccando così per troppa sicurezza. Proprio loro, che non hanno fede!
Oppure no?

L'evoluzione della cultura - LL Cavalli Sforza

domenica 7 novembre 2010 Posted by tfrab 0 comments
Libro molto interessante, letto in versione ebook grazie alla nuova sezione di IBS, e scritto da un gigante del settore. Il tema di fondo è l'analogia tra evoluzione di Darwin e quella culturale. La panoramica è ampia, e invevitabilmente poco profonda, eppure il testo è una lettura piacevolissima e stimolante.

Purtroppo il nostro conferma come molti grandi scienziati abbiano idee un po' limitate quando si parla di filosofia, epistemologia ed affini.

Si parte con le solite banalità su Galileo e la Chiesa che frena lo sviluppo del libero pensiero, per finire con un terrificante capitolo XVI, in cui praticamente tutta la Filosofia, da Platone a Cartesio, compresi i loro successori, viene liquidata in due righe, giudicandola ormai superata. La fine, secondo Cavalli Sforza, sarebbe imminente grazie ai grandi progressi nello studio della mente, tanto che "in poche decine di anni il pensiero umano potrà capire il pensiero umano".

Sarebbe ingeneroso voler mettere in croce un pensatore così brillante per due righe assolutamente marginali nell'economia dal saggio, che ha ben altri obiettivi. Però mi permetto di dissentire da simili affermazioni. In primo luogo perché è l'emergere della Filosofia che ha aperto la strada al Logòs e poi alla Scienza: giudicarla superata vuol dire avere le idee piuttosto confuse sulle radici della propria professione. In secondo luogo perché i grandi pensatori della storia dell'uomo, e le religioni che alcuni di essi professavano, hanno ancora oggi molto da dire. Dubito che al senso profondo della nostra esperienza potrà mai bastare la comprensione delle basi biochimiche del suo funzionamento, e non credo che il mistero profondo della nostra esistenza sia tanto semplice da sciogliere: per citare Hayek (h/t to Sisma)

“Esisterà sempre una parte della nostra conoscenza che non potrà essere
controllata dall’esperienza, poiché ne costituisce il principio ordinatore, nel
senso che è implicita nell’apparato di classificazione con cui conseguiamo le
varie esperienze”.


Insomma, ho il sentore che l'ottimismo di Cavalli Sforza non sopravviverà alla prova del tempo, ma non ho prove per dimostrarlo: wait and see, ma noi non saremo lì per sapere come è andata a finire.
(e comunque da quando ho aperto il blog ho dato del pirla JD Watson, P Krugman e ora Cavalli Sforza. Praticamente tre premi Nobel: sarà il caso di darsi una regolata? :-P)

Bolaño e la fine del sacro

domenica 29 agosto 2010 Posted by tfrab 1 comments

“Le uniche sale cinematografiche che svolgevano una funzione, disse Charly Cruz, erano quelle vecchie, te le ricordi? Quei teatri enormi che quando spegnevano le luci ti davano una stretta al cuore. Quelle sale erano perfette, erano i veri cinema, i più simili a una chiesa, soffitti altissimi, grandi tende rosso granato, colonne, corridoi con vecchi tappeti logori, palchi, posti in platea o in galleria o in piccionaia, edifici eretti negli anni in cui il cinema era ancora un’esperienza religiosa, quotidiana ma religiosa, e cha a poco a poco sono stati demoliti per costruire banche o supermercati o multisale. Oggi, disse Charly Cruz, ne sopravvivono pochissimi, oggi tutti i cinema sono multisale, con schermi piccoli, spazi ridotti, poltrone comodissime. In una vecchia sala di quelle vere entrano sette sale ridotte di oggi. O dieci. O quindici, dipende. E non c’è più l’esperienza abissale, non esiste la vertigine prima dell’inizio di un film, nessuno si sente più solo dentro un multisala. Poi, da quanto ricordava Fate, si era messo a parlare della fine del sacro.

La fine era iniziata da qualche parte, a Charly Cruz non importava dove, forse nelle chiese, quando i preti avevano smesso di dire la messa in latino, o nelle famiglie, quando i padri avevano abbandonato (terrorizzati, credimi, brother) le madri. Ben presto la fine del sacro era arrivata al cinema. Avevano smantellato i grandi cinema e costruito scatole immonde chiamate multisale, cinema pratici, cinema funzionali. Le cattedrali erano crollate sotto la palla d’acciaio delle squadre di demolizione. Finché qualcuno non aveva inventato le videocassette. Un televisore non è la stessa cosa di uno schermo cinematografico. Il salotto di casa tua non è la stessa cosa di una vecchia platea quasi infinita. Ma se uno osserva con cura, è la cosa che più gli somiglia. Innanzitutto perché grazie alla videocassetta puoi vedere da solo un film. Chiudi le finestre di casa tua e accendi la televisione. Metti la cassetta e ti siedi in una poltrona.

Primo requisito: essere solo. La casa può essere grande o piccola, ma se non c’è nessun altro ogni casa, per piccola che sia, in qualche modo si amplia. Secondo requisito: preparare il momento, cioè noleggiare il film, comprare le bibite che berrai, gli stuzzichini che mangerai, decidere l’ora in cui ti siederai davanti alla tua televisione. Terzo requisito: non rispondere al telefono, ignorare il campanello della porta, essere prono a passare un’ora e mezzo o due ore, un’ora e quarantacinque minuti nella più completa e assoluta solitudine. Quarto requisito: tenere a portata di mano il telecomando, se per caso vuoi rivedere una scena più di una volta. Tutto qui. Da quel momento in poi tutto dipende dal film e da te. Se tutto va bene, e non sempre va bene, sei di nuovo in presenza del sacro.”

 

Che grande scrittore Bolaño. Benedette queste ferie che mi hanno lasciato un po’ di tempo per 2666. Ispanofoni e lettori particolarmente arditi possono cimentarsi con l’originale del pezzo a questo indirizzo.

Labels: