Ragione e irrazionalità

sabato 19 novembre 2011 Posted by tfrab 0 comments

“La ragione concede che le idee che noi introduciamo allo scopo di espandere e migliorare la nostra conoscenza possano ‘sorgere’ in un modo molto disordinato e che l’ ‘origine’ di un punto di vista particolare possa dipendere da pregiudizi di classe, passione, idiosincrasie personali, questioni di stile, e anche errori, puri e semplici. Essa richiede però che nel ‘giudicare ’ tali idee seguiamo regole ben definite: la nostra ‘ valutazione’ di idee non deve lasciarsi dominare da elementi irrazionali. […]Ci sono situazioni in cui i nostri giudizi più liberali e le nostre regole più liberali avrebbero eliminato un’idea o un punto di vista che noi consideriamo oggi essenziale per la scienza e non gli avrebbero consentito di affermarsi. Situazioni del genere si verificano abbastanza spesso. Le idee sopravvissero e ‘ora’ si può dire che erano in accordo con la ragione. Esse sopravvissero perché il pregiudizio, la passione, l’opinione, la mera caparbietà, in breve perché tutti gli elementi che caratterizzarono il contesto della scoperta, ‘si opposero’ ai dettami della ragione e perché ‘si permise a tali elementi irrazionali di agire’. Per esprimere la situazione in modo diverso: ‘il copernicanesimo e altre concezioni esistono oggi solo perché in qualche periodo nel loro passato la ragione fu sopraffatta’. (È vero anche l’opposto: la stregoneria e altre concezioni hanno ‘cessato’ di esercitare un’influenza solo perché la ragione fu sopraffatta in qualche periodo nel loro passato). Ora, supponendo che il copernicanesimo sia una buona cosa, dobbiamo ammettere che anche la sua sopravvivenza è una buona cosa. E, e considerando le condizioni della sua sopravvivenza, dobbiamo ammettere inoltre che fu una buona cosa che la ragione sia stata sopraffatta nei secoli XVI, XVII e anche XVIII. Inoltre i cosmologi del Cinquecento e del Seicento non possedevano le conoscenze che abbiamo noi oggi, e non sapevano che il copernicanesimo era in grado di dare origine a un sistema scientifico accettabile dal punto di vista del ‘metodo scientifico’. Essi non sapevano quale delle molte concezioni esistenti a quel tempo avrebbe condotto in futuro alla ragione se fosse stata difesa allora in modo . In assenza di tale guida essi dovettero fare una congettura, e nel fare tale congettura, poterono seguire solo le loro inclinazioni. È perciò consigliabile, ‘ in qualche circostanza’, lasciare che le nostre inclinazioni vadano contro la ragione, poiché la scienza può trarne profitto.”

PAUL K. FEYERABEND (1924 – 1994), “Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza"

(h/t CONVERSAZIONI DI FILOSOFIA)
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Rassegnarsi a un mondo senza redenzione?

lunedì 5 settembre 2011 Posted by tfrab 2 comments
“Dopo Hegel […] perfino la teologia, perfino il cristianesimo saranno tentati, con un certo disincanto, a rassegnarsi ad un mondo senza redenzione. A una esistenza senza salvezza. E a considerare il nichilismo per quello che è: non tanto – o non solo – l’inconfondibile timbro che con toni, accenti e sfumature diverse assumerà, dopo Hegel, la filosofia contemporanea. Ma piuttosto il tratto distintivo della costituzione metafisica di tutte le cose. E della nostra creaturale esistenza, naturalmente. E tuttavia, nonostante questa disincantata tendenza nichilistica, la filosofia contemporanea non si rassegnerà alla terrificante idea che la morte sia l’ultima, definitiva, muta parola della/sulla vita. Poiché – come ha scritto Franz Rosenzweig – è «dalla morte (von Tode), dal timore della morte che prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto»”
(G. Cantarano – Le lacrime dei filosofi)

Hana wa sakura gi hito wa bushi

sabato 16 aprile 2011 Posted by tfrab 0 comments

sakura2 Il ciliegio, in Giappone, è il simbolo radioso della primavera che annuncia il ritorno alla vita, il messaggero della vittoria del Sole. Gli alberi esultano nella loro nuova fioritura. La potenza della terra si rivela come grazia, bellezza, purezza e fragranza nello splendore del cielo. Ma il fiore di ciliegio, nella sua bellezza, è quanto di più fragile ed effimero possa immaginarsi, tanto da essere assunto a simbolo dell'impermanenza (mujō).

Il monaco Ippen, quando qualcuno gli chiedeva di svelare la verità sulla vita e sulla morte soleva dire: "Hana mi toe: chiedetelo ai fiori del ciliegio”. Allo stesso modo, la potenza del bushi, prorompente dalle fonti profonde dello spirito e da esse alimentata, non si rivela come peso brutale e travolgente ma con le caratteristiche del fiore di sakura: la purezza e lo splendore, la leggerezza e l'impermanenza. La fragranza del fiore, delicata ed evocatrice, divenne allegoria dell'onore del bushi che profuma la primavera della sua vita e la sua terra oltre il breve cerchio dell'esistenza. Oltre la morte. Nel cuore di quanti ricorderanno le sue gesta e da esse trarranno linfa per nuove fioriture. La parola del bushi veniva educata in modo da non essere arrogante. Essa rivelava un'aristocratica sensibilità del cuore. La qualità di quel "cor gentile" che, in Occidente come in Oriente, fu prerogativa e contrassegno del vero cavaliere. Benevolenza, cortesia, gentilezza, delicata sensibilità non solo non tolgono nulla alla potenza del braccio, al contrario: sono inseparabili dal giusto compimento della Via. La delicatezza del fiore di ciliegio, la sua effimera e radiosa fioritura, esprime la virtù del non-attaccamento. Dopo aver annunciato primavera, il fiore di sakura si lascia trasportare dal vento. Il bushi paragonò la sua vita a quella effimera e bella dei fiori di ciliegio. Disciplina e meditazione, alleggerendo il peso della sua humanitas, della componente terrestre del suo essere, lo hanno reso lieve e pronto al distacco. Gli insegnarono a considerare la morte alla stregua del vento di primavera in cui non v'è nulla di oscuro: viene dall'azzurro mistero del cielo a proclamare la vita, petali danzanti nel vuoto ne annunciano la presenza. Il vento distacca i fiori dai rami per cospargerne i prati e i cammini degli uomini, le acque dei torrenti, le tombe dimenticate, l'erba novella, i capelli delle fanciulle ridenti, le aule silenziose dei templi e le vesti severe dei monaci. E come vento di primavera, il bushi apprese a considerare la sua vita e la sua morte: un viaggio da Mistero a Mistero, da Vita a Vita passando per la vita terrena.

(Mario Polia – L’etica del bushidō)

Vita e Destino – V Grossman

martedì 22 febbraio 2011 Posted by tfrab 0 comments

vita e destino Il ‘900 è stato un secolo terribile. Iniziato e finito a Sarajevo, in mezzo c’è stata la II guerra mondiale, lager, gulag e siamo stati fin troppo vicini alla guerra nucleare. Eppure il secolo sembrava promettere ben altro, ai primi del ‘900 erano in molti ad essere sinceramente convinti che il peggio fosse alle spalle, e che il progresso avrebbe migliorato, irreversibilmente, il mondo (cfr. A. Finkielkraut – Noi, i moderni, pp163-172).

Cos’è andato storto, allora? Com’è che la promessa di un futuro migliore è stata così clamorosamente tradita? Quella di Grossman è una testimonianza diretta, figlia della lotta contro i nazisti prima, e contro il regime comunista sovietico poi. I personaggi di “Vita e Destino”, veramente il Guerra e Pace dei giorni nostri, vivono sulla propria pelle la tragedia del ‘900. Le vite dei protagonisti, che ruotano intorno alla battaglia di Stalingrado, si scontrano ripetutamente con la crudeltà degli apparati statali, nazista e sovietico, e con la loro profonda disumanità.

“Quando un uomo muore le stelle nel cielo notturno si sono smorzate, la Via Lattea è scomparsa, s’è spento il sole, si sono spente milioni di foglie, anche il vento è cessato, i fiori hanno perso colori e profumo, è sparito il pane, l’acqua, il freddo e il caldo dell’aria. L’universo che esisteva nell’uomo ha cessato di esistere. Questo universo assomigliava straordinariamente all’altro, l’unico, che esiste al di fuori degli uomini. Questo universo assomigliava straordinariamente a quello che continua a riflettersi in milioni di teste vive.
Ma questo universo era particolare per il fatto che in esso c’era qualcosa che distingueva il rumore del suo oceano, il profumo dei suoi fiori, lo stormire delle sue foglie, le sfumature dei suoi graniti, le tristezze dei suoi campi d’autunno, da ciascuno di quelli che sono esistiti ed esistono in ogni individuo. La libertà consiste nell’irripetibilità, nella unicità dell’anima di ogni singola vita. “

I totalitarismi, figli del progetto di migliorare il mondo, hanno dimenticato l’uomo, stritolandolo nei loro meccanismi:

Dalla nebbia emerse il recinto del lager, le file di reticolati tesi tra i pilastri di cemento armato. Le baracche allineate formavano strade larghe, rettilinee. La loro uniformità rivelava la disumanità dell’enorme luogo di detenzione. […]Fra milioni di isbe russe, non ce ne sono né ce ne saranno mai due perfettamente identiche. Tutto ciò che vive è irripetibile. È impensabile che due uomini, due cespugli di rose selvatiche siano identici... La vita si spegne là dove la costrizione si sforza di annullare ogni peculiarità dei singoli.”

Eppure niente riesce a fermare l’anelito di libertà dell’uomo, che ha la meglio anche sui soldati nazisti, trasformatisi da assedianti in assediati:

“Gli ufficiali del quartier generale tedesco erano cambiati anche interiormente; i boriosi e gli arroganti si erano calmati; gli spacconi avevano smesso di vantarsi, gli ottimisti avevano iniziato a rimproverare lo stesso Fuhrer e a dubitare della giustezza della sua politica.[…]
Nei tormenti della fame, nelle paure notturne, nell’impressione della sventura incombente, lenta e graduale iniziò negli uomini a liberarsi la libertà; si umanizzavano, in essi a poco a poco si affermava la vittoria della vita sulla non- vita.”

Grossman è morto negli anni ‘60, perseguitato dal KGB e senza vedere il suo manoscritto pubblicato, né l’URSS crollare. Eppure mi piace pensare che non abbia mai perso la speranza, come la chiusura del libro suggerisce:

[…]in quella penombra fresca, sotto la neve, riposava la vita passata: la gioia d’un appuntamento d’amore, il timido chiacchiericcio d’aprile degli uccelli, i primi incontri con quegli strani vicini che sarebbero diventati familiari,. Dormivano i forti e dormivano i deboli, dormivano gli intrepidi e i pavidi, i felici e gli infelici. Quella casa abbandonata e vuota dava l’ultimo saluto ai suoi morti, a chi l’aveva lasciata per sempre. Eppure nel freddo del bosco la primavera si percepiva meglio che sulla radura illuminata dal sole. Il silenzio del bosco era più triste del silenzio d’autunno. In quell’assenza di suoni si udivano le lacrime versate sui caduti e la gioia furiosa della vita…Era ancora buio, faceva freddo, ma fra pochissimo porte e finestre si sarebbero spalancate e quella casa avrebbe ripreso vita, riempiendosi di risa e pianti di bambini, dei passi frettolosi di una donna e di quelli decisi del padrone di casa.

note:

1. recensioni sul libro: questa su wuz.it, quest’altra su nonsoliproust,

2. il sito del centro studi vita e destino, da dove ho preso alcuni estratti

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La tensione tra Cartesio e Cervantes

domenica 16 gennaio 2011 Posted by tfrab 0 comments

[...]se Cartesio pone l'uomo nel mondo come soggetto sovrano, Cervantes da parte sua lo detronizza in modo discreto:

«Mentre Dio stava lasciando piano piano il suo posto dal quale aveva diretto l'universo e il suo ordine di valori, separato il Bene e il Male e dato un senso a ogni cosa, Don Chisciotte uscì di casa e non fu più capace di riconoscere il mondo, che, in assenza del giudice supremo, gli apparve all'improvviso di una spaventosa ambiguità; l'unica Verità divina si scompose in centinaia di verità relative che gli uomini si divisero tra loro. Nacque così il mondo dei tempi moderni, e il romanzo, sua immagine e modello, nacque insieme ad esso.»

picasso-pablo-don-quichotteCi voleva del coraggio e persino dell'eroismo per concepire l'ego pensante come il fondamento di tutto; ma era necessaria altrettanta forza per «concepire il mondo come ambiguità» e per «possedere come unica certezza la saggezza dell'incertezza». Non è solo lo spirito cartesiano ad aver dato la sua impronta ai tempi moderni, facendo la loro specificità, ma anche la tensione tra Cartesio e Cervantes. Nel momento in cui gli esecutori del metodo, con la testa piena di linee, numeri e segni algebrici, «forzano il passaggio attraverso le tortuosità della vita», lo spirito del romanzo elimina gli ostacoli frapposti alla comprensione dei paradossi e dei grovigli dell'esistenza dalle vecchie antinomie metafisiche dell'alto e del basso, della tragedia e della commedia, dello stile sublime e della prosa quotidiana. Mentre la scienza «si accanisce a prendere in esame il perché di tutte le cose in modo che ciò che appare sia spiegabile, dunque calcolabile», lo spirito del romanzo s'ingegna a far rincretinire il principio di ragione. Il suo, infatti, è il campo dell'imponderabile, della sfumatura, della parte di verità che finisce per schiacciare ogni certezza trionfante. All'equiparazione dei problemi dell'umanità lo spirito del romanzo risponde con la continua esplorazione del fenomeno umano. Alle idee chiare e distinte continua ad opporre il contrappeso dello scrupolo. «Proprio come Penelope – scrive magnificamente Kundera – lo spirito del romanzo scuce la trama ordita la sera prima da teologi, filosofi e dotti».

((A. Finkielkraut - Noi, i moderni)

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